Una composizione del 1965 di Steve Reich: è da qui che l’artista elabora e sviluppa la tecnica del phase shifting, ovvero sfalsamento dei piani ritmici.
… Nel 1965, ero a San Francisco e stavo lavorando con due vecchi registratori a bobina per realizzare uno dei miei primi lavori. Avevo creato due loop identici con la voce del predicatore afroamericano che dice “It’s gonna rain”, e li avevo montati ciascuno su un registratore. Indossai le cuffie e quando feci partire le macchine mi accorsi, con grande stupore, che i due loop erano perfettamente allineati all’unisono. E, proprio mentre iniziavo a pensare a come sfruttare questa strana interrelazione, i due loop cominciarono a scorrere non perfettamente all’unisono; il risultato fu che percepii il suono viaggiare da un lato all’altro del mio corpo. Poi, percepii una sorta di riverbero, poi l’eco, e poi, infine, quella paradossale ripetizione della frase. Il viaggio che mi ha portato dall’unisono alla irrazionale relazione tra i loop, più dell’effetto ultimo ottenuto, è stata la molla che mi ha portato a studiare il phase shifting. Quindi, è vero che tutto è avvenuto per caso, ma mi sono accorto che avevo ottenuto, casualmente, un risultato assai interessante. …
Una delle particolarità di questo brano è l’interessante risultato psico-acustico prodotto nell’ascoltatore, e cioè quello di udire frammenti di frasi, parole e suoni che non risultano nella frase originaria.
Teoricamente il motivo è molto semplice, avviene una destrutturalizzazione della frase a tal punto che l’aspetto ritmico-timbrico ostinato viene a prevalere sulla nostra codifica del significato e contenuto concettuale della frase, ed è innegabile che tutto ciò possa portare a situazioni di trance uditiva ed esperienze allucinatorie.
A volte mi capita di soffermarmi per un istante su una parola appena pronunciata e cercare di esulare dal suo significato e concentrarmi esclusivamente sul timbro e sul suo suono. Ripeto la parola in questione varie volte, a diverse velocità, modificandone anche l’intonazione e scandendola in sillabe, o lettera per lettera. Dopo qualche minuto ho la percezione di pronunciare qualcosa di senza senso, e mi sento quasi ridicolo, come se fossi un pazzo che farfuglia qualcosa di incomprensibile.
(In un prossimo post vedremo l’interessante pensiero del compositore americano Robert Ashley, e di come utilizza la voce parlata nelle sue composizioni.)
Ma non è la stessa cosa che pronunciare un insieme di lettere senza significato come ytrewq, sarei già ad un punto morto e inutile, e se pronunciassi il suo inverso qwerty avrei già un richiamo mentale alla tastiera del pc. Quindi la sottile differenza sta nell’esulare dal significato di una parola già conosciuta, non nel pronunciarne una senza senso, ed è qui che facilmente si possono produrre alterazioni di stati di coscienza.
Ora se volete ascoltate pure It’s gonna rain di Steve Reich.